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Buono come il pane?

Pietro Porta (1832-1923) racconta sull’«ignobil cibo» comprato da un contadino del reggino: Avevamo ancora da finir la raccolta, e il pane non solo era scomparso dalla valigia, ma l’appetito si facea innanzi ancora con violenza a molestar il ventricolo. Mentre col compagno stava lamentando la miserabilità del basso paese; ecco che spinto dalla curiosità ci si avvicina un vecchio contadino in compagnia d’un suo ragazzo. Salutatolo, chiesi tosto se avea da vendere un po’ di pane. Si, che ne tengo nella casetta qui vicina rispose il buon uomo, ma non è che pan nero. Io giudicai che sotto quell’aggettivo si volesse significare un pane di frumento formato senza scelta di fior di farina, ovvero un pane composto di frumento, o segala, od altra mistura, nella quale il color della pasta non togliesse però più che tanto il gusto, e sapore del pane. Gli misi subito fra le mani il denaro convenuto, perché non avesse a dubitare della nostra puntualità; e il vecchio dati i suoi ordini al giovinetto si fermò presso di noi, per soddisfare il ben noto suo desiderio. In pochi minuti il ragazzo fu di ritorno portando un sacco che contenea una ventina di pani d’orzo, pesto o macinato con tutte le rispettive ariste; e assieme parecchi grani immaturi d’ulivo. Toltone fra mano due pezzi, nulla abbadando al colore, e alla forma che potea imitare gli escrementi d’un bue, ne porsi uno al compagno, l’altro lo misi subito fra denti con quella lena che suol risvegliare il migliore appetito. Poveri noi! Si sentiva masticar della paglia, o del fieno: e per quanto tentassimo d’inghiottir quel boccone non ci fu caso di riuscirvi. Pareva che trovasse sempre un intoppo nel gorgozzule, che si gonfiasse, che passeggiasse sotto alla mascella quasi per trastullo, che allargasse braccia e piedi per non seppellirsi nel ventricolo; e che questo alla sua volta ributtasse quel cibo che non conosceva per suo, e stato sarebbe più omogeneo ad un animale. Non fummo capaci di trangugiarne un briciolo, e così avvenne pure delle bacche d’olivo, degno companatico di sì ignobil cibo.

Giovanni Sole, antropologo