Erasmo

Tra i Colloquia di Erasmo da Rotterdam (trad. it., Garzanti, Milano, 2000) quello dedicato all’arte del convito – Il cenone – inizia con un consiglio paradossale che Apicio rivolge a Spudo, suo interlocutore: «A nessuno spiacerai se nessuno inviterai». Un banchetto ben riuscito deve prevedere di svolgersi tra poche persone, di non voler accontentare tutti i commensali («È così estesa la gamma dei gusti!») e di riunire al desco gente della stessa condizione e di identico carattere, anche per evitare di trovarsi in una sorta di torre di Babele di parole incomprensibili e lingue sconosciute. Fondamentale è la disposizione dei posti, per la quale bisogna fare in modo che la sistemazione a tavola sia assegnata a sorte e che «le portate non vengano fatte circolare da un capo all’altro […] come una S o […] come una biscia che si snodi, su dei piatti che i commensali si passano l’un l’altro, come un tempo si passavano il mirto». La soluzione del problema si trova nel gioco delle noci fatto dai bambini: «Ogni quattro commensali metti tre piatti e sopra un quarto […]. Ogni piatto conterrà un cibo diverso in modo che ciascuno possa scegliere ciò che preferisce». Il numero delle portate, poi, deve ispirarsi alla suddivisione delle parti della retorica e assommare a cinque, «facendo in modo che il prologo sia brodoso e l’epilogo, o conclusione, abbondi di leccornie». Nell’ordine da seguire per la presentazione delle vivande è necessario prendere a esempio la maniera di Pirro nello schieramento dell’esercito: «Anche in  un pranzo, come in un discorso, il proemio non deve essere complicato e così l’epilogo è apprezzato più per la varietà che non per l’apparato. Ecco perché nelle tre portate bisogna imitare la teoria di Pirro: alle due ali ci siano le cose migliori e al centro dello schieramento un piatto qualsiasi. In tal modo non ci farai la figura dello spilorcio e non stancherai con un’eccessiva profusione di piatti». Il bicchiere del vino non dovrà essere riempito dal padrone di casa, ma dal coppiere, che si informerà prima sulla qualità desiderata e lo mescerà soltanto quando ciascuno ne avrà voglia. Molto delicata e accorta è l’arte che deve possedere il padrone di casa, fondata sul garbo e sulla cortesia verso gli ospiti, ai quali si rivolgerà «col sorriso sulle labbra adattando la conversazione all’età, ai gusti, alle abitudini di ognuno» e utilizzando argomenti «che si fanno ascoltare volentieri da tutti e che non urtano nessuno». Soprattutto, bisognerà evitare l’eccessiva lunghezza dei discorsi a tavola, facendo in modo che essi non si trasformino in ubriacature: «Nulla dà più allegria del vino, quando è bevuto con moderazione, ma nulla al contrario diventa più molesto quando si esagera: così è per i discorsi». In altri termini, oltre che un’estetica, Erasmo lascia intravedere anche un’autentica etica del convito, incentrata su una concezione della virtù come medietà, equilibrio, misura. La parte finale del dialogo, nella quale Apicio suggerisce l’intervento dei mimi per allietare il banchetto e coinvolgere tutti i commensali nell’universalità del linguaggio dei gesti, ribadisce tale concezione con la conclusione a suo modo solenne, ripresa dalla cultura popolare, che il “troppo stroppia”.

Di Tonino Ceravolo, storico, saggista