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I mostaccioli di Soriano (…o di Seminara?)

I mostaccioli di Soriano si situano in una zona di confine tra gastronomia, religiosità popolare, arte e antropologia. Provengono probabilmente da una tradizione iconografica antica – sono stati, infatti, segnalati elementi greco-romani, giudaico-cristiani, bizantini, barocchi e altri ancora (Francesco Faeta) – e sembrano derivare dagli ex voto portati nei templi della Magna Grecia. Svariatissime le forme che assumono (santi, animali, particolari anatomici, oggetti di uso comune), spesso arricchite dall’inserimento di carta stagnola colorata e piccoli confetti. Una pagina di Domenico Zappone (I dolcetti di Calabria, in ID., Calabria nostra, Milano, Bietti, 1969, p. 162) li descrive in maniera particolarmente efficace: «I dolci della Calabria si chiamano “mostaccioli” e si fabbricano a Soriano […] anche se tutti li conoscono come mostaccioli di Seminara, dove se ne vendono a tonnellate per la festa d’agosto. Sono fatti di farina e miele. Cotti al forno, diventano durissimi e bruni. Discutibile è il loro sapore. Le loro forme però incantano. Lavorati pezzo dopo pezzo, raffigurano pecorine accasciate sui prati, colombe innocenti, galletti spiritosi, cavalli sfrenati con sulla groppa un ardito cavaliere, vergini trasognate con la palma del martirio, oppure enormi cuori recanti varie scritte per traverso, o che ripetono al lettera iniziale del paese d’origine e di quello di maggiore smercio, una esse grandissima e aggraziata. I mostaccioli sono adornati di stagnola. Verdi prati punteggiati di rossi fiori fioriscono sotto l’agnello, alte e azzurre sono le palme delle vergini, purpurei sono cresta e bargigli dei galletti, argentee e

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dorate sono briglie e spade, mentre i cuori fitti di trame ricamate come un merletto scandiscono le lettere amorose col color della fiamma. Chi li acquista o riceve si guarda bene dal mangiarli. Piuttosto ne adorna la casa, perché sono belli da vedere e mettono pensieri buoni. Così, a poco a poco saranno dimenticati, si ridurranno in niente. Pochi però sanno che, un tempo, quando la Calabria era Magna Grecia, ed al posto dei santi familiari di oggi c’erano gli dèi pagani, questi dolcetti venivano offerti alle divinità come ex voto, per grazia ottenuta o richiesta, e avevano le stessissime forme di oggi. Ne parla un poeta vissuto tre secoli prima di Cristo, Teocrito, che li descrive con grande precisione. Neppure allora si mangiavano, quand’erano offerti agli dèi, però parlavano lo stesso linguaggio di oggi, suadente e gentile».

Tonino Ceravolo, Storico e saggista