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L’ “abbaculu” di San Biagio

La “cosa d’un caldo color cammello imperfettamente rettangolare”, simile ad una delle “informali elucubrazioni” di Foutrier – ricordata da Sharo Gambino in una corrispondenza giornalistica – non è altro che lu ‘nzullu, il dolce di farina e mandorle tipico di Serra San Bruno. Un dolce all’apparenza duro, roccioso, che possiede la singolare proprietà di sfarinarsi in bocca pochi momenti dopo il primo assaggio. Lo si può ammirare in qualcuna delle vetrine dei fornai e dei pasticcieri che si affacciano nel centro storico cittadino, raramente da solo, ma, più spesso, in compagnia di altre specialità dolciarie, delle quali la tradizione gastronomica locale va giustamente fiera: le granitiche giamberliette, le piramidali pignolate, i soffici raffioli ricoperti di bianchissimo annaspro zuccherino. Forse, anche per questa tradizione dolciaria Serra San Bruno può considerarsi – secondo un’espressione che a Corrado Alvaro era stata ispirata dai valori civili presenti nella cittadina – “il paese di Calabria in cui si vorrebbe sostare”. Il 3 febbraio, giorno di San Biagio vescovo di Sebaste, è la festa degli abbaculi, una ricorrenza nella quale a Serra San Bruno pietà popolare, tradizione gastronomica, riti folklorici di propiziazione della fertilità si mescolano, in una cornice che vede, soprattutto, un’ampia presenza di bambini. San Biagio viene invocato, in particolare, come protettore e taumaturgo per le malattie della gola e in quest’occasione la benedizione degli ammalati o di coloro che richiedono preventivamente la protezione del santo costituisce il momento centrale della festa. Al momento religioso si associa il momento gastronomico, con la preparazione del tipico dolce a forma di pastorale episcopale, la sua distribuzione presso amici e conoscenti e la sua esposizione in bella mostra nelle vetrine delle botteghe locali. Non soltanto lu ‘nzullu, ma anche questa giornata viene evocata, mediante una descrizione leggera e intensa al tempo stesso, in una pagina di Sharo Gambino: «Sufficientemente annuncia la festa non un colpo scuro, ma l’odore che per le strade si spande dai forni dove cuoce il dolce che ripete il pastorale vescovile da voi [San Biagio, n.d.A.] tenuto nelle mani guantate di rosso: il baculum dei latini, l’abbaculo di torrone o di ‘nzullo di mostacciolo o più modestamente di farina, latte ed uova con la cannella; non la musica di ottoni e clarini, l’allieta, ma la frignata d’impazienza interrotta dal ceffone materno per non farvi torto: quando mai s’è visto un abbaculo spezzato e gustato, se prima l’arciprete in mozzetta e stola, a nome vostro, non lo avrà benedetto nella selva di altri abbaculi sollevati in alto dai bambini, mentre i grandi fanno benedire mannelli di fieno, bottiglie di vino, frutta e qualche mattone da applicarsi caldo sulle parti indolenzite? La festa tolti i tre giri […] che litaniando si fanno attorno alla

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chiesa Matrice, è tutta qui: in quell’accorrere gioioso attorno al vostro baldacchino di porpora e d’oro, in quel clamore innocente di bimbi che riempie le navate, nella contenuta ansia dei grandi. A sera, quando la luce elettrica mette in fuga la notte nei vichi, un innamorato scantona rapido perché non gli scoprano il grosso abbaculo coi confetti che egli porta alla fidanzata. Lo divideranno: la ragazza si terrà il manico mentre il fidanzato si spartirà l’uncino con gli altri presenti. San Biagio, è ora! Guardateli: prima di mangiare si segnano devotamente. Benediteli!» (Sharo Gambino, Sull’Ancinale. Serra S. Bruno e la Certosa, Cosenza, MIT, 1982, p. 187).

di Tonino Ceravolo, Storico, saggista