La “gola” di un esteta

Grande goloso di uova e, all’apparenza, cultore della moderazione a tavola, così si presenta da principio Gabriele D’Annunzio nel ritratto che ne offre Giordano Bruno Guerri in La mia vita carnale. Amori e passioni di Gabriele D’Annunzio (Mondadori, Milano, 2013). Il Vate ha una forte passione per le frittate, ma può «accontentarsi anche di un uovo sodo, purché bollito senza sciatteria e servito su argenti e ceramiche raffinate». Nemmeno al desco, però, D’Annunzio dimentica di essere un esteta: «Al Vittoriale Gabriele dispone di gioielli da tavola capaci di incantare i commensali. Apro le ante degli armadi progettati per le stoviglie, – scrive Guerri, che è presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani – nessuno ha mai spostato dalla loro collocazione originaria gli splendidi bicchieri di vetro bianco di Murano, i servizi in argento per il dolce e per il pesce, i vassoi, le caffettiere, le porcellane da tè, due saliere con cigno e un’antipastiera a forma di libellula». Nella sala da pranzo nella quale accoglie i suoi ospiti, la Stanza della Cheli, è un trionfo di raffinatezze, preziosità, mirabilia, decorazioni ricercate: «Sotto lo sguardo in bronzo della gigantesca tartaruga Cheli – osserva ancora Guerri – […] tutto è rimasto come allora: i pavoni in argento, le pietre preziose, il gusto déco del mobilio, il gruppo bronzeo del Satiro che insegue una ninfa dello scultore francese Pierre Le Faguays […]». A sovrintendere alla cucina del poeta è Albina Lucarelli Becevello detta anche, secondo i strabilianti soprannomi che D’Annunzio le attribuisce, Suor Intingola, Suor Indulgenza Plenaria, Suor Ghiottizia. A lei D’Annunzio scrive lettere imperiose, che nell’urgenza delle loro richieste tradiscono un rapporto con il buon cibo non così sobrio come lo scrittore vorrebbe farlo apparire. Un giorno le ordina di fargli trovare, quotidianamente, “fra le tre o le quattro del pomeriggio”, vitello freddo con salsa per lui solo, un’altra volta sono i cannelloni a infiammare il suo desiderio, un’altra volta ancora le comunica che gli è venuta «una voglia pazza di certe costolette che tu mi facevi riducendo, a furia di battiture con un pestello di pietra, la carne più sottile d’una buccia di banana, d’una crosticina di pane sfornato, d’una fetta di patata fritta, e magari di un’ostia consacrata dell’Arciprete Fava». Tanta è la riconoscenza verso Albina e i suoi manicaretti che il poeta la consacra in una filastrocca: «A Suor Albina che fa la Galantina / e fa la Gelatina / e fa la Patatina / e fa la Minestrina / e il petto d’Agostina / tutto alla buccarina / con l’arte sua divina!». Giordano Bruno Guerri fa notare come la gola di D’Annunzio sfoci, talvolta, in richieste degne di Trimalcione: «L’altra sera, dopo ventinove ore precise di stretto digiuno irrigato d’acqua ascetica … inghiottii sette uova col guscio, e il nero caviale del mio diletto infetto Cicerin, e i misteriosi scampi del mio Carnaro tradito, e la carne dell’irsuto porco e gli afrodisii tartufi del detto porco dissepolti, e le più acerbe frutta, e il più grosso cacio, e il più denso caffè». Si tratti di “vertigine dell’elenco” o di rappresentazione reale di cibi avidamente consumati, anche nel Libro segreto D’Annunzio si abbandona alla citazione compiaciuta di prelibatezze gastronomiche: il caviale di Lenine, “i mandarini e i bergamotti calabri di Giuseppe Scalise”, lo zibibbo “damasceno”, i lucumi di Istanbul, le fragole di California e tante altre squisitezze che nomina in un deliquio sensuale verso i ricercati sapori.

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Il semplice fatto del mangiare, come evidenzia Giordano Bruno Guerri, «appare un’esigenza fisiologica troppo grossolana per un’esteta», ma al Vittoriale il cibo «diventa fonte di piacere e coinvolgimento emotivo, di seduzione e bellezza».

Tonino Ceravolo, storico saggista