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Le sante anoressiche

“La santa anoressia” è il titolo di un volume di Rudolph Bell uscito in edizione originale quasi tre decenni orsono (“Holy Anorexia”, The University of Chicago, 1985; trad. it. Laterza, 1987). Bell affrontava quel fenomeno caratteristico dell’esperienza mistica di alcune sante – ed esemplare in tal senso era, nella sua lettura, il caso di Caterina da Siena – per il quale le donne di Dio, tramite il rifiuto del cibo e la conseguente consunzione del proprio corpo, si predisponevano all’unione mistica con Cristo, di cui, peraltro, si sforzavano di imitare la vita di rigorosa penitenza. Bell, nel suo volume, non presentava il caso di Chiara da Montefalco (1268 – 1308), ma, quando già si legga la prima vita della santa composta da Berengario di Donadieu (una edizione italiana, da cui citiamo, è stata pubblicata dalla casa editrice Città Nuova nel 1991), il rapporto della mistica umbra con il cibo appare come uno degli elementi centrali del suo cammino ascetico di fede. Già quando era fanciulla Chiara si asteneva sempre dalla carne e «[…] se desiderava qualcosa di gustoso da mangiare, così si riprendeva: “Corpo miserabile, non gusterai ciò che desideri!”. Un giorno che era ammalata le venne il desiderio di mangiare della casciata [una specie di pizza con uova e formaggio, n. d. A.]. Allora si mise in bocca e mangiò non casciata ma una vecchia crosta di pane. La benignità di Dio trasformò il naturale sapore del pane vecchio in ottimo sapore di casciata, tanto che Chiara non ricordava di averne mai mangiata di così buona. Da allora nessuna dolcezza di cibo attrasse più il desiderio di Chiara né ebbe più desiderio di mangiare una cosa piuttosto che un’altra». Il rifiuto del buon cibo, la frugalità alimentare, la radicale sobrietà a tavola, costituivano per Chiara un elemento di una più vasta costellazione di rinunce e sacrifici auto-imposti: si copriva con un solo scapolare e una sola tunica; se ne andava in giro a piedi nudi; il suo riposo notturno non avveniva mai nel letto, «perché riteneva che al corpo bastasse sedere sulla fredda terra o talvolta su un poco di paglia: stava appoggiata a una pertica che era piantata nella sua piccola cella oppure al massimo dormiva un poco adagiata su un’asse». Nel rapporto della santa con il cibo l’ideale della rinuncia si realizzava non soltanto con l’assumerne ogni giorno piccole quantità e con la scelta di una dieta preferibilmente non carnivora, ma anche con il rifiuto, pressoché costante, di tutto ciò che poteva rappresentare, persino al livello più semplice, qualche forma di ricercatezza e di manipolazione di quanto la natura poteva offrirle. Per questo, Chiara preferiva i cibi crudi ai cibi cotti e gli alimenti sconditi a quelli che vedevano l’aggiunta di qualche condimento: «Chiara pareva oltrepassare la frugalità di cibi e bevande al di là delle forze della fragilità umana: raramente e in minima quantità mangiava carni, pesce o altri cibi graditi al corpo o conditi. Si accontentava di prendere un poco di pane e acqua una volta al giorno […]; lo copriva, così inzuppato, di terra e di cenere e poi lo mangiava ritenendolo buono così. Diceva che se il corpo potesse sostenersi con la sola paglia, non avrebbe preso altro cibo che paglia. […] Quando poi, per una festa o per la domenica o per altra occasione, voleva ricreare un poco il corpo, prendeva soltanto fronde di vite o di rovo e germogli di altre piante o erbe oppure […] delle fave secche o, ma raramente, ammollate nell’acqua col pane. Se talvolta prendeva un cibo cotto, abitualmente lo mangiava senza condimento e senza sale oppure vi aggiungeva acqua o lo rendeva insipido in altro modo». Persino allorquando la malattia la costringeva ad attenuare il rigore dei digiuni, Chiara rimaneva “nei limiti dell’astinenza”: continuava a consumare un solo pasto al giorno di modica quantità, beveva così poco vino che un terzo di litro le durava per un’intera settimana e pure in questo caso l’uso della carne era un’eventualità rara. Sorprendentemente, nonostante tutte queste afflizioni, poco prima di morire il suo volto era lieto e il suo colorito roseo, come si confaceva a una creatura che aveva rinunciato al cibo materiale per nutrirsi, più profondamente, di quello spirituale.

di Tonino Ceravolo, storico, saggista