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L’uomo è ciò che mangia

Con questa celebre frase il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach coniava, nel 1862, uno degli aforismi più popolari e citati, spesso a sproposito, dell’intera storia della filosofia. Non potendo sottrarci alla tentazione della citazione, ne faremo uso anche noi, travisandone un po’ il significato a esclusivo beneficio di quanto diremo più avanti. Se è vero che l’uomo è ciò che mangia, non potrebbe essere vero anche il contrario? Non potrebbe quindi ciò che si mangia rappresentare in un certo senso l’uomo, inteso nella sua integrità, ovvero come un intreccio di anatomia, cultura, storia personale e collettiva? La storia delle consuetudini alimentari, della cucina, degli ingredienti utilizzati potrebbe dunque essere intesa come un modo diverso di guardare alla storia di un popolo o di una determinata area geografica. Nel caso della Calabria poi questa storia diventa particolarmente affascinante perché indissolubilmente legata a un territorio che ha visto coesistere e sovrapporsi popoli di etnia diversa, usi e costumi, a volte persino contrapposti, che hanno finito per generare una sorta di puzzle composto da pezzi provenienti dalle più svariate e distanti parti del mondo e che hanno dato vita a un disegno non sempre armonico e ben proporzionato ma, paradossalmente, proprio per questo, più interessante e articolato. Quella calabrese è pertanto una cucina fatta di sapori che fanno tornare con la memoria alla Grecia, al Medio Oriente, all’Europa del Nord, all’America. Una cucina che racconta la storia antica di un popolo che non di rado è dovuto sfuggire alle carestie, alle invasioni nemiche, alla fame Segno eloquente di quanto stiamo dicendo è per esempio il fatto che, sebbene bagnata su tre lati dal mare, la Calabria non conosca, se non per rare eccezioni, una cucina a base di pesce e annoveri invece come prodotti tipici soprattutto funghi, insaccati, castagne, patate… cibi quindi legati alle zone collinari e montane dove i calabresi, terminata la parabola magnogreca, furono costretti a cercare rifugio dalla malaria e dalle incursioni barbariche. Il pesce che compare più di frequente sulle tavole dei calabresi è pertanto il pesce essiccato – come lo stoccafisso, il cui consumo è assai diffuso nella parte meridionale – o conservato sotto sale, come il baccalà e le acciughe. Ci sono ovviamente importanti distinguo da fare relativi alla cucina di quelle poche comunità che si insediarono stabilmente sulla costa ma che furono in realtà, molto spesso, avamposti sul mare di zone interne. Le varie dominazioni cui fu soggetta la regione, i periodi di carestia, la penuria di beni alimentari che ha contraddistinto nei secoli la sua popolazione, han fatto sì che i calabresi sviluppassero una particolare ingegnosità nell’utilizzo delle erbe spontanee e dei prodotti della terra. Il “mangiare light”, l’abbondante e spesso fantasioso uso di verdure, germogli, erbe aromatiche e non, che contraddistingue ormai ogni ristorante alla moda, da queste parti non è dunque una novità. L’immagine di una cucina calabrese ricca di grassi e che fa abbondante uso della carne di maiale è infatti in larga misura frutto di un mito nato dai desideri alimentari di una popolazione costretta a misurarsi ogni giorno con la mancanza cronica di carne e che vedeva pertanto proprio in quei cibi più calorici il segno del benessere, della salute e della gustosità. Quando la penuria economica e di beni lasciò finalmente il posto, nella seconda metà del secolo scorso, a un’inaspettata, maggiore disponibilità, quei piatti tanto vagheggiati divennero accessibili a tutti per tornare oggi, in un’epoca in cui invece la principale causa di malessere non è certo l’inedia ma la sovralimentazione, a diventare nuovamente l’eccezione e non più la norma. In Calabria le tradizioni, soprattutto quelle gastronomiche, sono ancora vive e ben presenti, seppure in un connubio a volte curioso con la modernità o, forse sarebbe il caso di dire, con la postmodernità. La parola chiave per capire la Calabria non è “aut-aut” ma “et-et”: morsello e McDonald, fish & chips e stocco di Mammola. È difficile dire se il mangiare globale riuscirà alla fine ad avere la meglio, se i ristoranti in cui si sente sempre lo stesso odore, a Mosca come a New York, a Marrakech come a Catanzaro, finiranno per diventare una presenza familiare in ogni cittadina della regione, così come accade ormai in altre aree del pianeta.

Quello che però è certo è che una tradizione millenaria così densa di storia e di storie, di odori e sapori che lasciano correre la mente dai deserti arabi ai fiordi norvegesi, deve essere valorizzata e, in qualche modo, trasmessa anche alle generazioni future. La custodia della tradizione non deve però trasformarsi nella cristallizzazione delle forme in cui essa si esprime. Una tradizione è viva finché riesce a rispondere alle esigenze di chi vi ricorre e pertanto finché riesce a mutare in base a quelle esigenze. Quando una tradizione viene invece tenuta artificialmente in vita, magari attraverso forme stereotipate e posticce, non ha più senso di esistere se non come feticcio di un’epoca della vita che è già passata e che non si lascia ringiovanire. È proprio da queste considerazioni che siamo partiti nel creare alla Rosa nel bicchiere questo modo nuovo eppure antico di fare ristorazione e ospitalità e di cui questo libro costituisce un primo significativo esempio. Abbiamo voluto intendere la cucina come un lavoro paziente di riscoperta di antichi sapori, di valorizzazione della tradizione ma allo stesso tempo di ricerca di nuove forme espressive che potessero coniugare il presente con il passato, i sapori di un tempo con le esigenze della vita contemporanea che ci obbliga spesso a fare i conti con stomaci e palati certamente diversi. Come si potrà vedere dalle fotografie sul sito, abbiamo voluto riservare uno spazio importante, oltre che al gusto, anche e soprattutto alla bellezza, valore che ha accompagnato i calabresi sin dall’antichità e che spesso viene oggi brutalizzato senza riguardo alcuno.

È stata la ricerca della bellezza pura, quella che viene dalla natura e che non ha bisogno di belletto che ci ha spinti a scegliere il luogo dove realizzare il nostro progetto. La Rosa nel bicchiere infatti è immersa nel silenzio e nel verde dei boschi del Reventino, in una flora incontaminata tra querce, pini, pioppi e castagni. Qui la natura ha il fascino di un tempo. È la Calabria dei boschi, delle campagne verdi e luminose, dei ritmi scanditi dalla natura e dalla terra. E soprattutto del silenzio, vera e grande ricchezza di questi luoghi. Il silenzio agognato e sognato da chi vive continuamente immerso nei rumori della quotidianità. Quella che ne scaturisce è un’ospitalità che prende a prestito l’accoglienza tipica delle nostre popolazioni contadine e che tuttavia non trascura i mutati bisogni che caratterizzano gli uomini del nostro tempo, come lo sport, il nuoto, il trekking… in una parola, quel “movimento del corpo” da cui un tempo bisognava trovare ristoro e che oggi diventa a sua volta ristoro da una ben più convulsa frenesia dello spirito.

Rosa Palma Rubbettino

Testo tratto da La cucina creativa calabrese