Nobili e re a tavola nel Medioevo

I sistemi alimentari del Medioevo, così come quelli di altre età, non si presentano con caratteri di uniformità, ma rivelano una serie di differenziazioni che evidenziano diversità regionali, diversità per epoche pur all’interno della medesima cornice generale, diversità per ceti sociali. Alcune fonti letterarie e iconografiche, da non considerare ovviamente come esaustive, consentono di cogliere taluni tratti delle specificità alimentari di gruppi e classi. Una fonte preziosa è, per esempio, la Vita Karoli Imperatoris (§ XXIV) di Eginardo – qui citata nell’edizione curata da Giovanni Bianchi – nella quale il biografo fissa alcuni tratti delle abitudini a tavola di Carlo Magno: «Era moderato nel mangiare e nel bere, ma più moderato nel bere, tanto che aveva in odio l’ubriachezza in qualsiasi uomo, non solo in sé e nei suoi. Mentre nel mangiare non riusciva a fare altrettanto, e spesso

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si lamentava che i digiuni erano nocivi al suo fisico. Mangiava a banchetto molto di rado, e questo solo nelle principali feste, allora però con gran numero di persone. La cena di ogni giorno era solo di quattro portate, a parte l’arrosto, che i cacciatori erano soliti infilzare allo spiedo, e che egli mangiava molto più volentieri di qualsiasi altro cibo. Mentre cenava stava ad ascoltare qualche artista o lettore. […] Era così modesto nel bere, sia vino che altro, che durante la cena di rado beveva più di tre volte. D’estate, dopo il pasto di mezzogiorno, prendeva un po’ di frutta e beveva una volta sola, poi, levatisi vestiti e calzari, come era solito fare la notte, riposava per due o tre ore». Le parole di Eginardo non riescono a celare qualche contraddizione: la virtù della moderazione – reminiscenza dell’ideale greco della medietà, del giusto equilibrio tra l’eccesso e il difetto? – viene attribuita senza alcuna esitazione all’abitudine del bere e la condanna dell’ubriachezza è senza appello, mentre riguardo al mangiare la sua posizione appare molto più incerta. Enunciato con chiarezza all’inizio, il riconoscimento della moderazione nel consumo dei cibi è sostanzialmente mitigato da quanto viene detto subito dopo, tanto che l’immagine dell’arrosto infilzato allo spiedo sembra, piuttosto, suggerire un comportamento a tavola all’insegna del piacere gastronomico, della ricerca di cibi ricchi e “buoni da mangiare”, espressione di potenza e di vitalità.

Il fatto è pure che il sistema alimentare nobiliare ha conosciuto a sua volta, come quello contadino, importanti evoluzioni nel tempo, che, secondo Massimo Montanari, lo hanno fatto “transitare” da un’iniziale concezione del cibo come espressione di forza e persino di natura animalesca a una sua considerazione come momento di manifestazione di uno stile “cortese”, come ricerca delle buone maniere a tavola che si esplicano in primo luogo nel contesto del cibo, nelle suppellettili, nella scelta dei commensali, nell’arte di arricchire l’occasione conviviale con tutto ciò (per esempio musiche e discorsi) che può renderla maggiormente piacevole. Avviato nei secoli XII e XIII, questo mutamento si approfondisce ulteriormente nei tre secoli successivi: «[…] Nella società europea dei secoli XIV – XVI la nozione di potere non è più quella di un mezzo millennio prima: non più tanto la forza fisica e la capacità di combattere sono avvertite come il principale attributo del comando, quanto l’abilità amministrativa e diplomatica. Analogamente è cambiato il modo di esprimere il potere attraverso il cibo: non più la capacità individuale di mangiare si apprezza nel signore, ma la capacità di organizzare attorno a sé un apparato di cucina e di tavola sapientemente orchestrato, di far sedere attorno a sé le persone giuste, ad ammirare – prima ancora che mangiare – la quantità di cibo preziosamente elaborato che il proprio denaro e la fantasia dei cuochi e dei cerimonieri hanno saputo concentrare sulla tavola» (M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, 1997, pp.115 –116).

Una miniatura riferita al mese di gennaio delle Très Riches Heures del duca Jean de Berry, di cui sono autori i fratelli Limbourg, compendia in maniera esemplare questa concezione della tavola del signore. Nella miniatura, risalente all’incirca al 1413, stanno seduti a tavola uno di fronte all’altro e rappresentati di profilo il medesimo duca di Berry – che indossa uno splendido abito azzurro con damascature dorate e si ripara dal freddo invernale coprendosi il capo con un berretto di pelliccia – e un alto ecclesiastico. È Capodanno, un momento festoso consacrato allo scambio degli auguri e dei doni. Intorno ai due illustri personaggi una folla variopinta: invitati al banchetto, inservienti, una corte elegante che si muove con gesti misurati ed esprime nei volti serietà e compostezza. La scena è arricchita dall’arazzo alle spalle dei due uomini che raffigura una battaglia, da due cagnolini che si aggirano liberamente sopra la mensa e da un elegante levriero dal prezioso collare, accucciato davanti alla tavola sopra una stuoia. Sulla tavola di fronte ai due commensali e su un tavolino accanto le prelibate pietanze del banchetto e gli oggetti del cibo: piatti preziosi, una grande saliera a forma di nave, coppe e bottiglie dorate che contengono il vino. La scena nel suo insieme e ogni singolo particolare rinviano a un mondo di agi, al lusso, a una ritualità del mangiare nella quale i gesti e gli oggetti rivelano anche una funzione cerimoniale e “fotografano” un momento di raffinata convivialità, sfarzo aristocratico, tessitura di relazioni sociali consolidate intorno a un desco.

Di Tonino Ceravolo, Storico, saggista