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Pitagora e il tabù delle fave

Secondo la tradizione Pitagora e i suoi discepoli erano vegetariani. Disse un giorno il filosofo: «Astenetevi o mortali, dal contaminarvi il corpo con pietanze empie! Ci sono i cereali, ci sono frutti che piegano con il loro peso i rami, grappoli d’uva turgidi sulle viti. Ci sono verdure deliziose, ce n’è di quelle che si possono rendere più buone e più tenere con la cottura. E nessuno vi proibisce il latte e il miele che profuma di timo. La terra generosa vi fornisce ogni ben di dio e vi offre banchetti senza bisogno di uccisioni e sangue». E secondo Porfirio «raccomandava anche di non distruggere né danneggiare una pianta coltivata e fruttifera, e nemmeno un animale che non fosse per sua natura nocivo all’uomo».

Pitagora aveva un grande rispetto per gli animali al punto che, insieme ai suoi discepoli, non li uccideva, non li mangiava e non li sacrificava agli dei. Un frammento di Eudosso, conservato da Porfirio, narra che «praticasse la purezza a tal punto e tanto rifuggisse le uccisioni e gli uccisori che non solo si asteneva dagli esseri viventi, ma neppure si accostava mai a macellai e cacciatori». E Diogene scriveva: «In effetti Pitagora proibiva addirittura di uccidere, e a maggior ragione di mangiare gli animali, i quali condividono con noi il privilegio dell’anima».

Per alcuni, questo atteggiamento da parte di Pitagora era legato alla credenza della metempsicosi, secondo la quale, le anime degli uomini morti vivevano nei corpi degli animali, per cui uccidere un animale significava uccidere un uomo o mangiare un animale significava mangiare un uomo. A questo proposito si racconta che un giorno ammonì un concittadino che stava battendo un cagnolino: «Smetti, e non picchiare, perché invero si tratta dell’anima di una persona amica, che ho riconosciuto udendone la voce».

Pitagora era un convinto vegetariano ma vietava anche l’uso delle fave. Porfirio racconta che «prescriveva di astenersi dalla fave non meno che da carne umana» mentre nei detti simbolici affermava perentoriamente: «astienti dalle fave». Per Aristotele, Pitagora ebbe a dire che «mangiar fave, è lo stesso che mangiare il capo del genitore» e per Luciano «io non mangio alcuno animale; tutte le altre cose poi, infuor le fave». In un’altra occasione affermò sulle fave: «Io non le odio, ma per sempre me ne astengo, perché son sacre, perché hanno una natura mirabile». Tertulliano ci informa che Pitagora addirittura «aveva prescritto ai suoi discepoli che non si doveva neppure passare attraverso i campi di fave», mentre secondo Porfirio voleva che tale prescrizione fosse rispettata anche dagli animali. A questo proposito si raccontava che, se necessario, Pitagora ricorreva alle sue capacità taumaturgiche: «Invece a Taranto vide un bue al pascolo in mezzo a piante di ogni genere che si stava accostando a delle fave verdi; allora si avvicinò al bovaro e gli suggerì di dire al bue di non toccare le fave. E dato che il bovaro aveva preso a schernirlo, dicendo di non conoscere la lingua dei buoi, si accostò al bue e gli sussurrò all’orecchio non solo di allontanarsi dal campo di fave, ma anche di non toccarle mai più».

Ma perché Pitagora sosteneva che non bisognava mangiare o toccare le fave? Il carattere segreto della sua scuola non ci aiuta molto a rispondere a questa domanda, mentre le cose dette dai suoi discepoli sono piene di contraddizioni e frutto di chiare rielaborazioni. Ognuno ha infatti cercato di interpretare il suo pensiero e ha aggiunto o tolto ciò che riteneva opportuno. Vi sono addirittura singoli autori che nelle loro narrazioni gli fanno dire cose diverse l’una dall’altra senza mostrare alcun imbarazzo. Riguardo alle proibizioni alimentari Diogene, ad esempio, afferma che Pitagora non uccideva gli animali per le divinazioni, poi però ammette che sopprimeva galli, capretti e porcellini di latte quindi, citando Aristosseno, diceva che mangiava tutti gli esseri animati tranne il bue e l’ariete e poco dopo affermava che mangiava anche i galli. Giamblico, da parte sua, scriveva che Pitagora non sacrificava nessun essere animato e considerava il gallo «sacro al sole», ma poco dopo affermava che sacrificava solo occasionalmente esseri animati come «il gallo, l’agnello o qualche altro animale appena nato, ma non il bue».

Anche sulla proibizione pitagorica di mangiare le fave non tutti gli scrittori sono d’accordo. La maggior parte affermano che il maestro era fermo nel divieto alimentare, ma alcuni sostengono che al contrario non perdeva occasione per raccomandare di mangiare fave e che lui stesso ne era ghiotto per le sue qualità energetiche e terapeutiche. Gellio, ad esempio, scriveva: «E’ antica opinione diffusa e ben radicata, ma falsa, che il filosofo Pitagora non mangiò mai carne di animali, e che inoltre si sia astenuto dal mangiare la fava, che i greci chiamano Kýamos». E continuava: «Ma il musicologo Aristosseno appassionato cultore di letteratura antica e scolaro del filosofo Aristotele, è autore di un libro ‘Su Pitagora’ nel quale afferma che Pitagora di nessun altro legume fece maggiore uso che delle fave, nella convinzione che questo cibo alleviasse dolcemente il ventre e lo rilassasse. Ecco il testo di Aristosseno: ‘Pitagora pregiò tra i legumi soprattutto la fava: diceva che è lubrificante e lassativa, e per questo ne fece larghissimo uso».

Grandi perplessità sulle testimonianze dei suoi discepoli e sui suoi storiografi, dunque, ma per alcuni era lo stesso Pitagora ad essere contraddittorio. Diogene, citando Timone, ricordava che il maestro, essendo sempre alla caccia di adepti, «inclinava a opinioni ammalianti», mentre Cratino scriveva che i pitagorici quando avevano relazioni con un profano lo travolgevano con discorsi «scombussolandolo e confondendogli la testa a suon di antitesi». In sostanza, Pitagora e i suoi discepoli, poiché erano uomini di grande cultura, erano capaci di affermare tutto e il contrario di tutto. Erano quindi in grado anche di trovare mille motivazioni per mangiare o non mangiare fave.

Giovanni Sole, antropologo