Oltre il confine del Medioevo o, se si vuole, nel lungo Medioevo ipotizzato da Jacques Le Goff, il Gargantua e Pantagruele di François Rabelais sembra risolvere il conflitto tra Carnevale e Quaresima, ben presente nella cultura medievale, a tutto vantaggio della parte carnevalesca. Il Gargantua ci appare come un ponte, un arco teso tra il Medioevo – al quale guarda per reperirvi leggende, racconti, tradizioni popolari – e il Rinascimento, in cui è collocato e di cui accoglie, secondo le parole di Giovanni Macchia, l’ideologia della «gioia di vivere nel proprio tempo», della «felicità di vivere nel presente», colorandola di toni esasperati, senza la serena tranquillità degli
umanisti. Il cibo attraversa l’opera rabelaisiana per intero ed è un cibo mai povero o scarso, che, persino quando è incentrato sul “magro”, esplode in un trionfo di pietanze e prodotti, all’insegna della disponibilità e dell’abbondanza. Michail Bachtin ha opportunamente evidenziato i rapporti tra il cibo in Rabelais e la festa popolare: «Nell’opera di Rabelais le immagini conviviali, cioè quelle del mangiare, del bere, del nutrimento e dell’assimilazione del cibo, sono direttamente legate alle forme della festa popolare […]. Non si tratta comunque del bere e del mangiare come atti quotidiani e facenti parte dell’esistenza di ogni giorno del singolo individuo. Si tratta piuttosto del banchetto che si svolge durante la festa popolare, al limite del “gran festino”. Tutte le immagini del bere e del mangiare hanno in Rabelais una forte tendenza all’abbondanza e all’universalità che determina la formazione di tali immagini, la loro iperbolicità positiva e il loro tono trionfale e gioioso. Questa tendenza all’abbondanza e all’universalità è come un lievito aggiunto a tutte le immagini del nutrimento; e con questo lievito esse ingrandiscono, crescono, si gonfiano fino all’eccesso e alla smisuratezza. In Rabelais tutte le immagini del mangiare sono simili alle salsicce e al pane gigantesco, che di solito vengono portati in giro durante le sfilate di carnevale» (M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, trad. it., Torino, Einaudi, 1979, p. 304).
Nel grottesco rabelaisiano, ispirato anche da una significativa tradizione precedente, Carnevale trionfa nella forma del banchetto, mentre si materializza, ancora una volta, il paese di Cuccagna, ragion per cui nella battaglia tra “Digiuno” e “Mangiacarne” è quest’ultimo a prevalere sempre, considerato che il “magro” è tale solo nella tipologia del cibo e non certo nelle sue quantità e varietà. Si veda, per averne conferma, il capitolo sessantesimo nel IV libro (Come i Gastrolatri sacrificavano al loro dio nei giorni di magro, per distinguerli dai giorni di grasso), dove il lungo elenco di pesci “sacrificati” al dio Gaster fa completamente dimenticare che si tratta di un alimento ritenuto povero, al confronto con la carne, perché a colpire l’immaginazione del lettore è la doviziosità della lista e la rutilante diversità delle specie ittiche riportate. Dunque, un’apologia dell’abbondanza, persino nei giorni consacrati al magro. Analogamente accade con un altro alimento “povero”, le uova, nella presentazione delle quali, nell’evidente impossibilità di insistere sulla loro varietà, emerge la multiformità delle preparazioni, anche di quelle più “surreali”: «Uova fritte, affogate, sperdute, sode, barzotte, al tegame, in tortino, frullate, ripiene, strapazzate, al latte di gallina, sotto cenere, gettate pel camino, incatramate», con un ben rimarcato et cet. a chiudere la lista, quasi a indicare il possibile prolungamento ad libitum dell’elenco.
Il cibo in Rabelais diventa spia dell’immagine del corpo e del mondo e in esso si ritrovano, compendiati, i tratti del grottesco che Bachtin ha individuato come elementi tipici dell’opera rabelaisiana: «Fra le immagini del banchetto […] ci siamo imbattuti in espressioni esagerate e in iperboli. Queste stesse esagerazioni sono proprie, in Rabelais, anche delle immagini del corpo e della vita corporea. Ma esse […] risultano espresse più chiaramente quando si rappresentano il corpo e i processi alimentari. Ed è proprio qui che bisogna ricercare la fonte principale e il principio creatore di tutte le altre esagerazioni e iperboli dell’universo rabelaisiano e la fonte di ogni smisuratezza e sovrabbondanza» (p. 332). Se ne ha un primo esempio già nelle pagine iniziali (cap. V), quando viene descritto il pasto di Gargamella, incinta di Gargantua: «A lei il fondamento si sfondò un dopopranzo, il giorno 3 di febbraio a causa di un ingorgo di tripperesede, avendone mangiate di troppo. Le tripperesede sono trippe grasse di fartitauri. I fartitauri sono buoi ingrassati alla greppia e ai prati rimessiticci. […] Di questi grandi buoi ne avevano fatti ammazzare trecentosessantasettemila e quattordici per metterli sotto sale il martedì grasso, così da avere in aprile bue stagionato a cataste, onde commemorarne i salati con devozione al cominciare dei pasti e aprire meglio al vino. In quella occasione, come potete immaginare, si ebbe un diluvio di trippe, e tanto saporite che ognuno se ne leccava le dita. Ma la vera diavoleria stava in questo, che non era possibile serbarle senza che andassero a male […]. Per cui fu deciso di sfanfanarsele tutte e che non un’oncia ne andasse perduta». Abbondante e varia è la caccia improvvisa di Carpalim nel capitolo XXVI del II libro: «Quattro grandi ottarde, sette galline prataiole, ventisei pernici grigie, trentadue rosse, sei fagiani, nove beccacce, diciannove chiurli, trentadue ramieri, e uccidendo inoltre con i piedi dieci o dodici fra conigli e leprotti abbastanza cresciuti per schivare le trappole, diciotto coppie di gallinelle, quindici cinghialetti, due tassi, tre grosse volpi».
L’intera opera è un’epifania di banchetti, simposi, conviti, dappertutto cibo, trionfo di sapori, metafore gastronomiche. Il banchetto è l’autentica cifra del libro, l’espressione mangereccia della corporeità nei suoi bisogni naturali e nella ricerca del piacere carnale. Ben a ragione Michail Bachtin ha sottolineato il suo ruolo centrale in una buona parte di Gargantua e Pantagruele, come un leit-motiv e un continuum che ricorre nei diversi episodi: «Un banchetto conclude l’episodio della causa fra Baciaculo e Nasapeti e quello simile di Thaumaste. […] E tutto l’episodio della guerra con re Anarco rigurgita di immagini di banchetti e soprattutto di immagini di grandi bevute che diventano quasi l’arma principale della guerra. Anche l’episodio della visita di Epistemone al regno dell’oltretomba è pieno di immagini di banchetti, e quello della guerra contro Anarco si conclude con un banchetto popolare saturnalesco nella capitale degli Amauroti»..
Il libro è una festa del cibo, dell’eccesso, della gozzoviglia, una continua invenzione di piatti, di nomi di cuochi improbabili e fantasiosi (Tuttasugna, Panperduto, Leccavino, Durolardo, Raschiapentole, Spandibrace, Mondarape e cento altri ancora), di personaggi ingordi che si saziano a crepapelle, una festa dell’abbondanza, che ha le sue Regine in colei che governa il Paese della Quinta Essenza – detta anche Entelechia – e in colei che sta a capo del Paese delle Lanterne. La prima invita i suoi gentiluomini a imbandire le tavole, perché siano «strabocchevoli d’ogni legittima specie di ristorativi», si circonda di una corte che mangia in un’apoteosi di prelibatezze, di «vivande rare, ghiotte e preziose»: «Al levar delle mense […] fu portato un pot-pourri di tale vastità e grandezza che il platano d’oro donato al re Dario da Pizio Bitinio l’avrebbe appena ricoperto. La gran pentola era piena di zuppe di vario genere, nonché insalate, salse, intingoli, capretti allo spiedo, arrosti, bolliti, carbonate, gran pezzi di bue salato, prosciutti stravecchi, pasticceria, un mondo di cuscus alla moresca, tartine e formaggi, giuncate, gelatine, frutti d’ogni sorta». L’altra si sgrassa la stomaco e lo ripulisce ben bene prima di mangiare, poi si siede a una tavola in cui sono serviti «i quattro quarti del montone che portò Elle e Frisso attraverso lo stretto della Propontide; i due capretti della celebre capra Amaltea nutrice di Giove; i piccoli della cerbiatta Egeria, nutrice di Numa Pompilio; sei paperi covati da quella degna oca Ilmatica che col suo canto salvò la rocca Tarpea di Roma; i maialini della troia […]» e mille altre pietanze ancora in una sarabanda carnascialesca di cibi mitici e succulenti, così come di parodistici piatti che, immaginiamo, non avranno potuto conoscere l’onore della tavola. Il grasso e il magro, Carnevale e Quaresima, “carnivori” e “vegetariani”, tutti i conflitti e le opposizioni sottesi ai modelli alimentari del Medioevo, si ricompongono in Rabelais nel trionfo del banchetto, l’equivalente – secondo Bachtin – del concepimento e della nascita, il “corpo vittorioso” che «assorbe il mondo vinto e si rinnova».
Tonino Ceravolo, storico, saggista