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Tropea felix

 Tropea la nobile, Tropea la colta, la felix Tropea, è una meta del turismo europeo che ha nella cipolla (come, bisognerebbe aggiungere, nella sua tradizione religiosa e culturale, nella rupe che sovrasta il mare, nelle diffuse presenze di architettura monumentale) un caratteristico elemento di identità. Le “rosse” di Tropea sono, da tempo, un’icona della cultura gastronomica nazionale, sono le cipolle per antonomasia e per eccellenza, il tocco raffinato di notissimi gourmet e l’ingrediente essenziale di molti menù domestici. Giungendo a Tropea dalla strada di Ricadi se ne avverte nell’aria l’aroma e la fragranza, che fanno pregustare il caratteristico sapore dolce e la leggendaria leggerezza, simboli del riscatto di un alimento considerato umile, da cucina povera, da tavola penitenziale. Le cipolle adornano perfino il paesaggio urbano della città: appese agli ingressi dei negozi, esibite davanti ai ristoranti, adagiate nei panieri. Danno colore e profumo. Ma le tradizioni alimentari e la disponibilità di prodotti tropeani non si esauriscono con la preziosissima cipolla. Un particolare itinerario si può suggerire a chi ama il mare e i suoi prodotti, un viaggio – in compagnia di Giuseppe Chiapparo, il più noto folklorista della zona – tra i luoghi e gli usi alimentari legati al mondo della pesca nel territorio di Tropea. Infatti, come riferisce Chiapparo, «le acque pescose dove, secondo le consuetudini locali, si calano le reti, sia di giorno che di notte, sono divise in tante zone che, a partire da Tropea, seguendo la direzione E. N-E, prendono i seguenti nomi: u Varu, al largo di Tropea; a Dragara; i Furchi; a Tunnara; Bordila; a Taranga. Dall’anzidetto punto di partenza, andando verso ponente, ponente-maestro, prendono i nomi: subba i previti, al largo dello scoglio detto “i messaggi”; ‘u Scogghiu d’u Capu, nei pressi della punta di Riaci; a Ruffa, al largo della fiumara omonima; Fundeju all’acqui di fora, circa tre miglia al largo del Capo Vaticano, dove le acque misurano una profondità dai quattrocento ai cinquecento passi […]; a Sicca, a tre leghe dal Capo Vaticano (la tradizione locale vuole che sia un’isola sommersa); u Furnu, al largo di S. Maria di Galilea; a Marmurea cu l’arburu ruttu; u Guadaru i fora; i Candileri, circa sei miglia oltre il Capo Vaticano, in direzione dello Stretto di Messina; a Sicca Liparota; a Murmurea; i Criti; i Merguli; u Malidittu». Gli stessi proverbi popolari diventano, nella ricerca etnografica di Chiapparo, testimonianza e documento intorno ai prodotti locali, agli usi alimentari, alle tradizioni gastronomiche: «D’u pisci grossu pigghiati la testa, che è parte che meglio rende per preparare il sugo. […] ‘U pruppu si cucina cu l’acqua so’ stessa, non significa solo il modo di cucinare questo mollusco, ma vuole dire pure che una persona si deve castigare da sé. […] Li sardi di jennaru / e li vopi di marzu, vuol dire che in detti mesi i pesci indicati sono squisiti a mangiarsi. A maju / ‘A cipuja è grossa / E ‘a sarda è grassa. […] La ricciola è la rigina di lu mari […]. A ragusta / pocu mangi e cara custa, perché è un crostaceo da cui si ricava poca polpa. ‘A trigghia / non s’a mangia cu la pigghia, perché è un pesce prelibato e il pescatore trova molta convenienza a venderlo. […] Undi su’ trascini, scorfani e murini, / Su’ vilenusi e su’ boni a mangiari /, Ma si ti toccanu cu li loro spini, / Tutta la praja ti fannu curriari. Loda le carni ma avverte il pescatore a non farsi toccare dalle spine mentre i pesci sono vivi» (Cfr. Giuseppe Chiapparo, Pesca, alieutica ed usi dei pescatori di Tropea, in Folklore della Calabria, Palmi, Barbaro Editore, vol. I, pp. 107-123). Un paniere di pregiate prelibatezze ittiche, che, c’è da scommettere, accompagnate dalla leggiadra cipolla aggiungono impagabile profumo di cibo a profumo, impareggiabile sapore a sapore.

Tonino Ceravolo, Storico, saggista